
Ci sono date che anche a distanza di decenni richiamano eventi che hanno cambiato il corso, se non della storia mondiale, sicuramente di quella di determinati paesi o aree geografiche. Una di queste è il 10 luglio 1943, giorno dello sbarco degli angloamericani in Sicilia.
Data importante non solo perché due settimane dopo quell’evento si ebbe la caduta di Mussolini e l’inizio della sconfitta del nazifascismo, ma anche per le gravi conseguenze che l’operazione Husky, nome in codice dello sbarco, ebbe per la Sicilia.
Dopo che per anni avevano tenuto un basso profilo, a seguito dell’attività investigativa del Prefetto Mori e giudiziaria del Procuratore Giampietro, per i mafiosi l’arrivo degli americani equivalse all’arrivo del Settimo Cavalleggeri di cinematografica memoria.
La vulgata sullo sbarco dice che per occupare la parte di Sicilia loro assegnata, gli americani beneficiarono dell’appoggio dei mafiosi, dopo che nei mesi precedenti erano stati avviati contatti con gangster di origine italiana, fra cui il famigerato Lucky Luciano.
La paternità di questa tesi viene attribuita a Michele Pantaleone, importante esponente socialista siciliano, il quale in un volume pubblicato nel 1962 parlò di contatti fra i servizi di sicurezza americani e Lucky Luciano al fine di coinvolgere la Cosa Nostra siciliana nella programmazione dell’operazione Husky, e addirittura, a sbarco avvenuto, nella cogestione delle operazioni militari.
Quest’ultima affermazione ci sembra molto azzardata, mentre è ragionevole pensare che gli americani – come sempre avviene in queste circostanze – abbiano voluto prendere ogni precauzione per la buona riuscita dell’operazione, assicurandosi l’appoggio di chi ritenevano che potesse essergli utile, compresa la criminalità.
Esclusa, dunque, la cogestione delle operazioni militari, alcune considerazioni fanno pensare che un quid pro quo fra mafiosi locali e le forze di occupazione americane ci sia stato.
La prima è la veloce avanzata statunitense rispetto ai britannici. I piani prevedevano che gli americani avrebbero occupato la Sicilia Occidentale e i britannici quella Orientale. Ebbene, i primi, sbarcati sulla costa fra Gela e Licata, impiegarono dodici giorni per coprire i circa 180 chilometri che li separavano da Palermo e per occupare un territorio prevalentemente montuoso, esteso circa 15.000 chilometri quadrati. I secondi, invece, per occuparne circa 8000 (prevalentemente pianeggianti e costieri) e coprire i circa 140 chilometri che separano Pachino-Pozzallo (dove erano sbarcati) da Catania, ne impiegarono venticinque. Più del doppio dei giorni per fare un terzo di strada in meno. Non perché i britannici fossero meno agguerriti degli americani, ma forse perché a questi ultimi giovò davvero l’aiuto dei mafiosi.
La seconda considerazione che depone a favore dell’aiuto sporco ricevuto dagli americani, riguarda la massiccia immissione di mafiosi nelle amministrazioni comunali e in altri organismi amministrativi della Sicilia Occidentale, durante l’occupazione. È utile ricordare che l’amministrazione dei territori occupati era affidata all’Allied Military Government of Occupied Territory (AMGOT), a capo del quale c’era il comandante in capo delle forze alleate, generale Harold R. Alexander.
A causa della scarsità di “addetti agli affari civili” o COA (Civil Affairs Officers) gli occupanti dovettero ricorrere a personale italiano. Ora, se nelle provincie orientali questo non creò problemi di ordine “mafioso”, perché là ancora la mafia non esisteva, ne creò parecchi nelle provincie occidentali occupate dagli americani.
L’ampia autonomia di cui godevano i COA fece si che le maglie attraverso cui dovevano passare i candidati, furono troppo larghe (erano esclusi apriori solo gli antifascisti, perché considerati “di sinistra”), di modo che troppo spesso veniva reclutato chi godeva di forti “appoggi” oppure chi si agitava di più per ottenere cariche per sé o per i suoi protetti.
Preziosa, al riguardo, la testimonianza del capo dell’amministrazione civile, il britannico Rennel Rodd, il quale lamenta che spesso furono scelti i capimafia locali o i loro collaboratori, i quali in alcuni casi erano cresciuti in ambienti mafiosi americani. Il primo e più noto di questi fu il noto mafioso Calogero Vizzini, nominato sindaco di Villalba (CL) anche per interessamento del clero nisseno.
A causa di ciò si ebbero gravi degenerazioni a danno dei carabinieri e nella concessione di permessi d’armi a chi ne faceva richiesta. La fama di fedeltà alla monarchia da parte dell’Arma, aveva indotto Rennel Rodd ad affidarle (com’era naturale) compiti di pubblica sicurezza. Invece, molti CAO, specialmente americani, presero provvedimenti punitivi nei confronti dei carabinieri, su richiesta della popolazione locale, desiderosa di vendetta per veri o presunti soprusi subiti durante il Ventennio.
Sempre fra i CAO americani si ebbero casi di rilascio di permessi d’armi a mafiosi. Probabilmente perché, abituati alla disinvoltura con cui nel loro paese si usano le armi, estesero con troppa facilità il diritto all’ “autodifesa” a tutti i proprietari che facevano richiesta del porto d’armi.
Eppure il rischio di legittimare e riarmare i mafiosi, diventando strumenti inconsapevoli della mafia, non sfuggì ai comandi americani, tanto che fu avviata un’inchiesta che non risparmiò critiche molto dure all’operato sia dei COA che degli interpreti di cui si servivano, perché molti di essi risultarono collegati – direttamente o indirettamente – già negli Stati Uniti, ad ambienti mafiosi. Ma il pragmatismo americano – comprensibile dal loro punto di vista, letale per noi – aveva prevalso. Addirittura, in un memorandum riservato citato in un suo lavoro dallo storico Rosario Mangiameli, era prevista la possibilità di un accordo segreto con la mafia. I mafiosi avrebbero dovuto impegnarsi a non praticare il contrabbando e gli alleati «a non interferire con la mafia in quanto tale, ad eccezione di individuare e punire il crimine.»
L’occupazione angloamericana si protrasse fino a febbraio del 1944, quando l’amministrazione passò al governo nazionale, che aveva la sede provvisoria a Salerno.
Gli americani passarono, ma i mafiosi da loro insediati per gestire i territori liberati rimasero, cominciando a generare le metastasi che hanno avvelenato la società siciliana prima e nazionale poi, come conferma una relazione indirizzata nel 1973 alla Commissione Antimafia dall’allora colonnello Carlo Alberto dalla Chiesa, quale capo della Legione Carabinieri Sicilia. «Fermo restando che nell’immediato dopoguerra, durante l’Amministrazione del Governo Militare Alleato in Sicilia, ad opera di siculo-americani vennero stabiliti – come detto all’inizio – rapporti con mafiosi locali e gettate le basi del traffico internazionale di stupefacenti diretti al mercato americano dalla Sicilia e dalla Francia (epicentro Marsiglia), da più fonti attendibili viene assicurato che sin da allora – e tuttora – per quanto attiene all’Europa, le due basi principali di inoltro di grosse partite di stupefacenti in U.S.A. e nel Canada sono considerate l’Italia e la Francia».
In un suo brano del 1989 Francesco De Gregori canta “legalizzare la mafia, sarà la regola del Duemila”, senza tenere conto che la legalizzazione della mafia cominciò a luglio del 1943.
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