Ferrari e Porsche come specchio della trasformazione sociale: estetica del lusso e scomparsa della classe media

Berlin
Ogni epoca ha i suoi simboli economici. Nel Rinascimento, il mecenatismo e i palazzi nobiliari; nell’Ottocento, le ferrovie e le ciminiere; nel Novecento, le grandi fabbriche di massa. Oggi, in un mondo segnato dalla concentrazione della ricchezza e dal progressivo svuotamento della classe media, i simboli passano per i marchi del lusso e per la loro capacità di resistere, o meno, ai mutamenti economici. Ferrari e Porsche sono due specchi di questa trasformazione: la prima incarna l’estetica intatta del super-lusso mentre la seconda testimonia la crisi di un modello ibrido, sospeso tra esclusività e accessibilità.
Leggo nel Frankfurt Allgemeine Zeitung del 5 Settembre, nell'articolo di Daniel Mohr, che Ferrari ha raddoppiato la propria quotazione in dieci anni, con margini superiori al 30% sul fatturato, mentre Porsche — nonostante un glorioso passato e un brillante debutto in Borsa — si trova oggi espulsa dal DAX, con margini crollati dal 19% a meno del 5%.
Per capire meglio, forse bisognerebbe cominciare con i numeri; i numeri che raccontano due mondi, partendo dai volumi della produzione: intanto, Ferrari produce pochissimo per scelta. Nel 2015 le consegne erano di circa 7.600 per arrivare nel 2024 a 13.752 unità. In questo caso parliamo di un incremento calibrato, che mantiene intatta la rarità. Porsche, invece, è un gigante: dalle circa 25.000 consegne nel 2015 è passata a oltre 310.000 nel 2024, trainata soprattutto da SUV come Cayenne e Macan. I ricavi riflettono questa asimmetria: nel 2024 Ferrari ha fatturato 6,67 miliardi di euro, mentre Porsche ha sfiorato i 38 miliardi. Tuttavia, è nei margini che si rivela la vera differenza: Ferrari, oltre il 30% di utile operativo, Porsche in caduta libera al 5,5% nel 2025, con previsioni persino al 2% a causa dei costi di transizione verso l’elettrico.
I prezzi delle singole autovetture indicano le fasce sociali a cui si rivolgono, quindi Ferrari vende auto a partire da 200.000 euro fino a oltre 600.000. Ogni vettura è un’opera unica, grazie a programmi di personalizzazione che aumentano il prezzo medio reale. Porsche invece si muove in un range più ampio: i SUV, cuore del volume, oscillano fra 60.000 e 120.000 euro, la 911 e i modelli speciali salgono più in alto, ma restano comunque teoricamente accessibili a una borghesia alta o a professionisti benestanti. Ed è proprio qui che entra in gioco il fattore sociale: la fascia media-alta, un tempo bacino privilegiato per Porsche, oggi è in erosione, mentre l’élite globale, vero cliente Ferrari, è sempre più ricca e disposta a pagare.
Per quanto riguarda i consumi e le emissioni delle autovetture, i dati tecnici parlano chiaro: una Ferrari V12 (come la 812 Superfast) consuma oltre 15–20 litri/100 km con emissioni di CO₂ molto elevate. Porsche ha invece intrapreso la via opposta. Già nel 2019 ha lanciato la Taycan, una berlina elettrica ad alte prestazioni, investendo massicciamente nello sviluppo di piattaforme EV. I modelli Macan e Cayenne hanno versioni ibride plug-in, con consumi ridotti rispetto ai motori tradizionali. Per la clientela Ferrari, questo non rappresenta un problema: il valore risiede nel rumore del motore, nell’aura estetica e nella rarità. Le conseguenze economiche? Qui emerge la contraddizione: mentre la Ferrari continua a prosperare senza preoccuparsi troppo della svolta green, in quanto il suo cliente non chiede efficienza né sostenibilità, ma esclusività, la Porsche ha provato ad anticipare la transizione ecologica, paga oggi margini crollati, costi di sviluppo enormi e concorrenza cinese spietata nel settore EV. Quindi, si può dire tranquillamente che esiste un bel paradosso, cioè che la “virtù verde” non viene premiata dal mercato, mentre l’indifferenza di Ferrari alle logiche sostenibili rafforza la sua aura e la sua redditività. In altre parole: alla classe ricca non importa della transizione ecologica, perché può continuare a comprare lusso incondizionato. Al contrario, chi prova a rendere l’innovazione accessibile alla “middle class”, rischia la marginalizzazione finanziaria.
Dal punto di vista dell'Estetica del Lusso, praticamente questa realtà dimostra la scomparsa della classe media, in quanto l'opposizione Ferrari-Porsche non è solo industriale, ma è anche un’immagine fedele della società occidentale; da una parte, Ferrari rappresenta la concentrazione della ricchezza che si basa sulle consegne basse, prezzi altissimi, margini da record. È l'immagine di un lusso intatto che continua a vendere anche in tempi di crisi, perché i super-ricchi non smettono di acquistare status.
Dall'altra parte, la Porsche, rappresenta la scomparsa della classe media. La sua strategia di ampliamento della base clienti funzionava in un mondo dove esistevano professionisti, imprenditori e dirigenti disposti a spendere 80–100 mila euro per distinguersi. Oggi quella fascia è sempre più compressa da inflazione, debiti, precarietà e perdita di potere d’acquisto. Questa realtà si materializza e diventa dinamica nei meccanismi di Borsa: i piccoli investitori, spesso appartenenti alla classe media, hanno progressivamente abbandonato i mercati azionari, lasciando spazio ai grandi fondi e agli investitori istituzionali. Così Ferrari, titolo dei grandi patrimoni, prospera, mentre Porsche soffre la mancanza di sostegno retail e la volatilità dei costi.
Si potrebbe leggere questo fenomeno con gli strumenti di alcuni pensatori? Beh, si!
Adam Smith, (The Theory of Moral Sentiments, 1759; Wealth of Nations, 1776) già notava come il valore non sia solo “utilità”, ma anche “riconoscimento sociale”. Ferrari lo conferma: il valore estetico del marchio diventa valore di mercato; Schopenhauer (Die Welt als Wille und Vorstellung, 1818) avrebbe visto nella corsa al lusso un’illusione della “volontà” che spinge incessantemente a desiderare simboli, senza mai saziarsi. La Ferrari diventa allora l’oggetto estetico supremo dell’élite, che però non placa la fame di distinzione; Keynes, (nel “The General Theory of Employment, Interest and Money”, 1936) ricordava che la domanda effettiva è il motore dell’economia, quindi la scomparsa della classe media è un problema sistemico: senza consumatori intermedi, il capitalismo scivola in un dualismo tra ultra-ricchi e masse impoverite; Diego Fusaro, nella sua perpetua denuncia alla polarizzazione della massa sociale, (“Bentornato Marx”, 2010 e “Pensare altrimenti”, 2017) viene confermato dal fenomeno della separazione del lusso estremo da una parte, e la precarietà e la dissoluzione della classe media dall’altra. Porsche è una della “vittime” di questa forbice sociale; Ugo Mattei, parlando dei beni comuni e di diritto, con riferimento alla “green economy” (“Beni comuni. Un manifesto”, 2009; “Il diritto di avere diritti”, 2014) dimostra come la costruzione normativa avrebbe dovuto riequilibrare mercato e società, ma nei fatti mostra di favorire solo chi può permettersi di ignorarla (Ferrari) e di penalizzare chi cerca di adeguarsi (Porsche).
In conclusione, l’estetica che divide, dimostra che Ferrari e Porsche non sono solo due case automobilistiche: sono due specchi della trasformazione sociale in atto. L’una prospera vendendo il mito dell’esclusività, incurante della sostenibilità; l’altra tenta di aprirsi e innovare, ma inciampa sulla fragilità di un ceto medio che non esiste più. Questa parabola ci dice che l“estetica dell’economia” non è ornamento, ma sostanza: decide quali imprese sopravvivono e quali soccombono.
L’epoca in cui viviamo è quella della concentrazione estrema del lusso e della dissoluzione della borghesia. Ferrari sorride, Porsche arranca. E nel mezzo, la società perde la sua armonia.
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