Violenza contro le donne: tra folklore e stereotipi
Femminicidio: Accade più nel Nord o nel Sud dell’Italia?
Una domanda interessante è se il fenomeno del femminicidio sia più “meridionale” o “settentrionale”. Ed è una domanda legittima se si pensa al fatto che molto spesso ancora oggi lo stereotipo del meridionale geloso e violento e della “femmina” sottomessa torna negli sketch televisivi o nel cinema nostrano e internazionale.
C’è stato un tempo in cui il mondo del cinema italiano ha dedicato ampio spazio all’argomento della violenza contro le donne, ma quasi sempre in chiave ironica, realizzando iconiche caricature delle dinamiche familiari e relazionali tra uomo e donna. Tra i titoli più celebri ricorderete certamente “Divorzio all’italiana” (1961) e “Sedotta e abbandonata” (1964) di Pietro Germi, “La ragazza con la pistola” (1968) di Mario Monicelli, Mimì metallurgico ferito nell’onore (1972) e “Film d’amore e d’anarchia” (1973), entrambi di Lina Wertmüller. In queste pellicole, i paesaggi e i dialetti sono del sud Italia, e più precisamente ambientati in Sicilia. Nell’immaginario italiano (e anche internazionale), la Sicilia è sempre stata vista come la parte del Paese più legata ai valori patriarcali, al senso dell’onore familiare, alle regole sociali non scritte, alla sacralità della femminilità e della verginità.
film “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli
Fino agli anni ’60 -’70, il delitto d’onore e il matrimonio riparatore erano più frequenti nelle regioni meridionali, non solo in Sicilia ma anche in Puglia, Calabria, Basilicata. Il film “Divorzio all’italiana” usa la Sicilia proprio come “cornice esasperata” per rendere più evidente l’assurdità della legge sul delitto d’onore. Anche se i film erano ambientati in Sicilia, gli autori (Germi, Monicelli, Wertmüller...) non volevano dire che solo i siciliani fossero così.
Anzi: attraverso la Sicilia, criticavano l’intero sistema culturale italiano, che era patriarcale ovunque. I dati dei giorni nostri lo dimostrano e la realtà racconta una complessità che supera i luoghi comuni.
Secondo vari rapporti EURES e analisi universitarie, la distribuzione dei femminicidi non segue un semplice asse Nord-Sud. La Lombardia è spesso la regione con più femminicidi, seguita da Campania e Lazio.
In termini proporzionali (cioè rispetto alla popolazione femminile), regioni come Liguria, Trentino-Alto Adige, Emilia-Romagna, Calabria e Abruzzo mostrano indici più alti della media.
Negli ultimi anni, alcuni rapporti segnalano un calo al Sud e un aumento al Nord, anche se le oscillazioni annuali rendono difficile parlare di tendenze consolidate. Quello che emerge con chiarezza è che il femminicidio non è una questione geografica, ma culturale. Accade ovunque: nelle grandi città del Settentrione come nei borghi del Sud, nelle zone economicamente prospere quanto in quelle periferiche.
Oltre i numeri
I dati servono, ma non bastano e non raccontano abbastanza riguardo al fenomeno della violenza contro le donne. Ogni numero nasconde una storia, un nome, una voce che si è spezzata senza fare rumore. Ogni donna uccisa lascia dietro di sé figli, famiglie, comunità che dovranno ricominciare da una ferita che non guarisce mai davvero.
E c’è un altro dato che non compare nelle tabelle: quello degli uomini che non vogliono riconoscere il problema, che rifiutano la parola “femminicidio”, la liquidano come esagerazione o invenzione ideologica. Ma riconoscere un fenomeno è il primo passo per affrontarlo. Parlare di femminicidio significa parlare anche di noi, dei punti deboli del Paese e della società, delle relazioni che costruiamo, dell’indifferenza che ci circonda o con cui ci facciamo scudo, delle crepe che lasciamo incancrenire finché diventano tragedia. Gli strumenti culturali e legislativi ci sono, ma evidentemente non sono ancora abbastanza o del tutto efficaci. Cosa manca dunque? Manca ancora la volontà e il coraggio di usarli quegli strumenti con continuità, determinazione, senza lasciarsi distrarre dall’ennesima polemica social e dall’ennesima minimizzazione.
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